Il tutto nel vuoto di una scena che la regia di Roberto Catalano costruiva, passateci il verbo, sulla sottrazione più radicale: solo quattro fari mobili, azionati ad incorniciare e a ridefinire lo spazio – giocoforza asfittico - entro cui i personaggi avrebbero ordito la loro tela di amore e di morte. Attorno, niente. Solo lo scheletro nero dell’Auditorium, tra cemento e vetrate, e la notte. Un Rigoletto “giacomettiano” e per diversi aspetti cameristico, dolorosamente scarnificato fino al limite estremo della sua essenzialità, con qualche inevitabile taglio alla partitura e quattro sole voci a rappresentare, velenoso contrappunto alle angosce del gobbo buffone, la “dannata vil razza” della corte gonzaghesca. [...] Andate a vederlo. Questo Rigoletto della rinascita merita una passeggiata nel parco.
La regia di Roberto Catalano, obbligata alle distanze imposte, ci ha risparmiato le mascherine, impossibili da vedere in scena. In mancanza di scene ed attrezzo, si è ricorsi alla luminotecnica, con i proiettori spostati dagli stessi interpreti che hanno cantato senza nemmeno sfiorarsi. Ne ha risentito particolarmente il quartetto del terzo atto: né il Duca ha potuto abbracciare Maddalena, né Rigoletto e Gilda cantare nascosti in un angolo. Ciò detto, non si è trattato di un “concerto in costume” e, anzi, alcune scene hanno avuto una valenza affatto nuova: per esempio durante i “Cortigiani” contro cui si scaglia il protagonista, reso ancor più drammatico dall’assenza del coro.